Milano solo andata di Martino Savorani
4 Aprile 2009
È una giornata primaverile. Le previsioni promettono cielo sereno con qualche nuvola nel pomeriggio, ma qui è mattina e domina il grigio spento di impazienti nubi temporalesche.
Mi sveglio alle nove, che, essendo sabato, è mattina presto. Lo zaino mi aspetta in sala pieno per metà di biancheria, beauty case e l’immancabile ombrello. Andare a Milano senza ombrello è come andare a Rimini senza costume.
Mio padre, il mio buon padre mi accompagna alla stazione. Nel viaggio parliamo di sport, dei progetti per la domenica e delle ultime notizie dalla parrocchia. Intanto per radio passano gli Strokes e qualche vecchia canzone italiana.
Alla stazione di “Imola, città di: Imola” – come ripete la voce delle Ferrovie dello Stato – mi congedo dandogli appuntamento per l’indomani.
Il treno è come lo zaino: semivuoto. Prendo posto davanti a un signore che avrà quarant’anni, forse cinquanta. Non riesco mai a definire l’età di una persona dal suo viso.
Il treno è un regionale che ferma in tutte le stazioni. In una di esse scenderò anch’io per cambiare treno. Emozionante.
È buffo: anche se volessi permettermi un’Alta Velocità avrei comunque da cambiare un treno. Certo, ci impiegherei un’ora in meno e 30 euro in più, ma non ho fretta.
Per i poveri viaggiare è un piacere, per i ricchi una perdita di tempo. I ricchi vanno qui e vanno là con uno scopo e tutto ciò che si mette fra loro e la meta gli è d’intralcio. Anche i poveri hanno delle mete, ma vivono tutto quello che viene come parte della vita, anche se non darà un vantaggio mutabile in titoli azionari.
La campagna scorre fuori dal finestrino, facendosi più piatta e industriale man mano che il treno si addentra nell’Emilia. Alberi bruciati, canali di scolo, transenne di lavori in corso, rifiuti tra l’erba e poi campi, campi e ancora campi. Grano, erba medica, mais: le solite cose. E il cupolone grigio su di noi; in un cielo così è impossibile immaginarci il Paradiso.
Le ore passano e le stazioni anche. Il mio dirimpettaio è sceso a Bologna e nessuno ha preso il suo posto. Gente ne è salita, ma in altre carrozze.
Piacenza: è il mio turno. Raduno il giubbotto e lo zaino, uno in spalla e l’altro sotto il braccio. Scendo dal treno atterrando su una pozzanghera; è freddo a Piacenza. Intorno, un’anonima stazione dei treni, così smunta che non ha bisogno della pioggia per mettere tristezza. Mi ritorna in mente il ritornello di quella canzone che fa “Dio come piove… alla stazione di Piacenza, Dio come piove…”2 Fischiettandola, imbocco il sottopassaggio. Manca mezz’ora al treno per Milano.
Il treno Piacenza-Milano sembra correre più velocemente, forse fa solo più frastuono. Questa volta la carrozza è stipata di gente di ogni colorazione, ma il chiacchiericcio è a livelli minimi come se fossimo tante piccole unità separate le une dalle altre, senza possibilità di incontro.
Ho trovato posto di fronte a un ragazzo curioso: mi guarda scrivere, smanetta un secondo col cellulare e subito i suoi occhi vengono rapiti da qualcosa oltre il finestrino, con una rapidità che fa immaginare chissà quale evento là fuori.
“Codogno”. Ma che paese è questo? Non lo saprò mai. Il treno riparte subito, voglioso di lasciarsi alle spalle pugni di curiose case colorate. Il ragazzo mi manda sguardi interrogativi, poi si volta per leggere una pubblicità appesa proprio alle sue spalle. Contemporaneamente mi accorgo di avere una macchia nei pantaloni, in corrispondenza della metà del femore sinistro. Come sempre noto questo genere di cose solo quando sono in mezzo alla gente. Un camino di una fabbrica rilascia fumo grigio e denso, incessantemente. Povero mondo, cosa gli tocca sopportare!
La stazione di Milano è un cantiere sempre aperto. Il treno arriva, rallenta, si ferma. La gente è in piedi accalcata sull’uscita già da dieci minuti: fanno le corse per scendere. Io aspetto che la ressa si plachi e finalmente scendo, toccando terra come l’ultimo anello di una catenina rotta che abbandona il collo per scivolare al suolo.
La stazione è muta. I miei compagni di viaggio si sono misteriosamente dileguati; invisibili all’orizzonte, forse già inghiottiti dal traffico cittadino. Sono solo. Un’edicola illuminata, non si vede l’edicolante. Sono solo. Scale, scale mobili, porte elettroniche, cemento e cielo color cemento. Milano. Nessuno nel piazzale, nessuno per le strade, nessuno nei negozi. Auto parcheggiate, taxi lampeggianti senza autista, hot dog e piadina sfrigolano bruciacchiandosi sulla lastra di una baracchina. Sono solo.
Scendo nella Metro. Due minuti al prossimo treno per Maciachini, dice l’insegna. Aspetto due minuti, ne aspetto quattro, ma la tabella luminosa non cambia e il treno non arriva. Dieci minuti dopo ne mancano ancora due al prossimo treno per Maciachini. Mi guardo intorno, ma è come cercare delfini scavando nello zucchero.
Torno al piazzale della stazione, tal “piazza Duca d’Aosta” (e chi sarà mai?).
Grido.
“C’è qualcuno?”
Silenzio.
(Sono solo?)
“Non c’è nessuno?”
Silenzio.
(Sono solo)
Due volte la stessa domanda, in forma positiva e negativa. Come per il bicchiere: mezzo pieno o mezzo vuoto.
Mani in tasca: il cellulare: mia sorella.
“Ciao Martino, come va a Milano?”
“Ciao, qui… non c’è nessuno!”
“Cosa vuol dire che ‘non c’è nessuno’?”
“… che sono solo! Da quando ho lasciato il treno non ho incontrato nemmeno una persona!”
“Come… ma come…”
“Aspetta…”
(rumore di televisione, volume in crescendo)
“… aspetta un attimo… sul TG c’è un servizio in diretta da Milano… una giornalista parla, è in una piazza grande e bella… alle sue spalle c’è un colonnato, sembra romanico… e ci sono delle persone, camminano… cosa intendi con ‘non c’è nessuno?’”
“Che… sono solo.”
“Pronto? Non ho capito, puoi ripetere? Martino… sei ancora lì? Pronto, pronto!?!”
"Milano solo andata" racconto di Martino Savorani
Autore di "Un paese lontano"
Altri suoi racconti e biografia: http://www.martinosavorani.it/
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