Il Passo dei Maledetti

Racconto a puntate settimanali.
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 CAPITOLO 1
Fumava una sigaretta, nervosamente, guardandosi intorno. Il sole bruciava e la sua pelle bianca cominciava a prendere colore, il sudore gli impregnava la camicia.
Giocherellava con un cellulare passandoselo da una mano all’altra.
La gente passeggiava, parlandko e ridendo, il fruttivendolo in fondo alla strada, gridava gli incredibili prezzi della sua mercanzia, occasioni da non farsi scappare, alcune signore si fermavano, altre compravano, il resto semplicemente continuava senza interrompersi.
Una musichetta gli fuoriuscì dalle mani e per poco il cellulare non si schiantò al suolo.
- Sì?...Va bene ho capito. Non ti preoccupare. Continuerò ad aspettarti, non mi muovo da qui…Però Cristy, ti prego, fai presto!
Lui mantenne la sua promessa, ma calò il sole e poi arrivò la notte, finirono le sigarette e le gambe cominciarono a tremargli. Si accasciò a terra come un pupazzo, aspettò l’alba, si asciugò una lacrima e se ne andò barcollando.

La ragazza stava scappando, era già notte, correva in una strada deserta, seguita da nessuno, eppure il suo volto, nascosto dietro una maschera di spavento, continuava a voltarsi indietro e le sue gambe a correre più forte, ma non furono abbastanza rapide o lente per schivare la macchina che la investì, facendola rimbalzare a metri di distanza, dall’incrocio che stava attraversando.
La macchina si fermò, scese un ragazzo.
- Merda, merda, merda…da dove cazzo è sbucata sta pazza?!? Ehi tu? Mi senti?...Merda schifosissima!
Si abbassò per scuoterle il corpo, in cerca di un segnale e si ritrovò le mani sporche di sangue.
Corse verso la macchina senza voltarsi indietro, schiacciò l’acceleratore, il rombo del motore allontanandosi lasciò nel più assoluto silenzio deboli battiti sospinti da una fresca brezza estiva.

CAPITOLO 2
Il ragazzino cercava qualcosa per arrampicarsi e poter raggiungere il cibo che nascondeva il cassonetto vicino al supermercato, qualcuno aveva fatto sparire i tre mattoni rossi che utilizzava solitamente, come un equilibrista.

Gironzolò lì intorno per alcuni minuti senza trovare nulla, si stava innervosendo.
La fame era grande e se fosse possibile la disperazione ancora più grande.
Decise di usare semplicemente le sue braccia per sospingere il suo corpo fino al bordo del cassonetto, dopo vari tentativi riuscì a piantonare il suo addome al limite, una fitta atroce cominciò a salirgli fino alle tempie, un po’ di carne in quel corpo ossuto avrebbe reso tutto meno doloroso.
Non poteva resistere ancora molto a lungo, le sue mani afferrarono le prime cose che gli capitarono e si lasciò cadere a terra, quando finalmente aprì gli occhi, si accorse che quello che stringeva in una mano era semplicemente un pomodoro marcio che gli si era spappolato tra le dita, mentre nell’altra mano non aveva nulla che potesse definirsi commestibile.
Voleva piangere dalla rabbia, ma anche le lacrime erano preziose per chi non aveva niente.
Cominciò a leccarsi il liquido rosso che dalla mano gli stava scendendo lungo il braccio, leccò avidamente, fino a ripulirsi, tutto ciò che era pulibile.
Rimase seduto lì, vicino alla strada, come un gatto randagio. Era notte e cominciava ad avere freddo, però non aveva la forza di tornare in quello che lui chiamava il suo “Nascondiglio”.
Si alzò molto lentamente e barcollando cominciò a camminare lungo il marciapiede, come sempre la strada a quell’ora era deserta, per quello era la sua ora preferita, nessuno lo vedeva, forse nessuno sapeva che esisteva, forse.
Una macchina sfrecciò a grande velocità vicino a lui, quasi cadde a terra, dovette fermare il suo barcollare, per resistere alla forza di gravità. L’auto era già lontano quando decise di fare inversione e tornare indietro.
Il ragazzino guardò la scena incuriosito, nessuno passava di lì a quell’ora, forse si erano persi, forse.
Si fermarono giusto vicino a lui, un uomo scese dalla macchina, afferrò il ragazzino che quasi non si mosse, e letteralmente lo lanciò dentro l’auto, poi si sedette vicino a lui e chiuse la porta.

- Andiamo

L’autista accelerò bruscamente, i corpi dei due passeggeri sobbalzarono, e il corpo del ragazzino si schiacciò contro il sedile anteriore.

- Come ti chiami?
- …
- Meglio così, allora non ti dispiacerà se ti chiamerò Marco

L’uomo aprì il finestrino.

- Marco…puzzi!

CAPITOLO 3
La casa era buia, puzzava di chiuso. Il ragazzino venne spinto dentro senza troppi complimenti, cadendo a terra. La grande porta di ferro si chiuse rapidamente dietro di lui.
Non sapeva dov’era, ma era così stanco e privo di energie che non aveva neppure la forza di farsi troppe domande. Rimase sul suolo senza muoversi, un sonno comatoso si stava impossessando di lui,
quando una porta della stanza si aprì producendo un fascio di luce, il ragazzino vide semplicemente una mano che fece scivolare un piatto lungo il pavimento, poi ritornò il buio.

Un profumo cominciò a muovere le sue narici, un rumore sordo gli scosse le budella e molto lentamente cominciò a strisciare attirato da quell’odore, continuando a seguire semplicemente il suo olfatto. Finalmente le mani sbatterono contro qualcosa, cominciò ad afferrare il contenuto del piatto, non riconosceva nessun sapore, semplicemente trangugiava bocconi che a mala pena masticava.

Quando le sue mani non trovarono più nulla, si lasciò cadere ancora una volta esausto.

Una luce intensa lo svegliò, non sapeva quanto tempo era passato, aprì gli occhi ma dovette richiuderli rapidamente, poi ci provò ancora, lentamente, fino a quando cominciarono a mettere a fuoco la stanza.
La luce proveniva dal soffitto. Riconobbe il portone dal quale era entrato, la porta da dove una mano gli lanciò il suo pasto, la stanza era molto grande e completamente vuota.
Girò su se stesso per visualizzare il resto dell’abitazione, in un angolo, lontano da lui vide qualcosa, chiuse gli occhi e li riaprì, come per pulire l’immagine impressa, però non funzionò.

Strisciò lentamente verso il centro della stanza, poi quando fu abbastanza vicino si fermò e gridò.
In quel momento le luci si spensero nuovamente.

Il ragazzino ritornò velocemente vicino al suo piatto. Lo afferrò. Quasi non respirava.

In quella stanza non era solo.

CAPITOLO 4
Il portone si aprì, entrò un uomo, il buio nascondeva il suo volto e ogni altra cosa.
Da un angolo della stanza si innalzarono delle grida. Il ragazzino stringeva talmente forte il suo piatto che le mani cominciarono a fargli male. Poi l’uomo se ne andò trascinando con lui qualcuno che continuava a divincolarsi e a urlare.

Il portone si richiuse e ritornò il silenzio.
Qualcosa lo toccò e lui per difendersi scaraventò il piatto sperando di centrare quel qualcosa, ma il rumore della porcellana che si schiantava al suolo, rompendosi in frantumi lo terrorizzò ancora di più.

Cominciò a urlare e ricevette un urlo di risposta, allora urlò più forte e la sua voce tornò ad essere l’unica nella stanza. Quando non ebbe più fiato, decise d’istinto di rannicchiarsi in posizione fetale, sentiva un soffio sulla sua faccia. Si accesero nuovamente le luci.
I suoi occhi si chiusero rapidamente e aprendosi si incontrarono in quelli di un altro ragazzino, sdraiato vicino a lui.

- Chi sei?

Il ragazzino si sedette senza rispondere, lo fissava intontito, quasi assente, senza sbattere le palpebre.

- Per favore dimmi qualcosa, ho paura!

Le luci si spensero, il rumore dei neon li lasciò in pace ancora una volta, poi una vocina dal nulla, lo fece rabbrividire.

- Mi chiamo Luca.

CAPITOLO 5
- Cristina per favore non fare i capricci
- Ma papà voglio solo giocare un po’
- Ti ho detto che devi dare retta alla signorina Rachele, poi se fai la brava potrai giocare un po’ con lei
Cristina non capiva perché doveva fare sempre quello che diceva sua padre, aveva 10 anni, e certe cose le capiva. Capiva che lì fuori c’era un mondo che lei non aveva mai visto. I libri che studiava, gli unici che le era permesso leggere, glielo dicevano. Gli parlavano di guerre, di conquiste, di uomini e di donne, di religioni, di paesi lontani.
Lì il suo mondo era racchiuso tra 4 mura, molto spaziose per l’amor del cielo, una quarantina di stanze, quasi tutte inesorabilmente vuote. Aveva libero accesso a tutte le camere, prima di tutto si doveva bussare educatamente, mentre la porta del padre non poteva essere toccata da nessuno e nemmeno da lei, non si poteva disturbare il signor Annostri.
La signora Rachele parlava seduta vicino al tavolo, suo padre se n’era già andato.
Dovevano studiare algebra, storia e geografia, una piccola pausa, poi cominciare con latino e letteratura.
Sapeva cos’era una bicicletta, una macchina, un telefono, la radio, la televisione, aveva sfogliato davanti ai suoi occhi queste incredibili invenzioni, eppure non aveva mai toccato con mano niente di tutto questo. Anni prima in una delle poche comparse del padre aveva deciso di chiedergli una bicicletta.
- Dentro una casa non si può usare una bicicletta
- Allora regalamela e io andrò fuori ad usarla
La schiaffeggiò forte.
- Ragazzina sai benissimo che non puoi uscire, non giocare con me…MAI
Era vero, sapeva benissimo che non poteva uscire, ma non sapeva assolutamente perché.
Stava crescendo, cominciava a farsi domande e le risposte non arrivavano quasi mai, rendendo incomprensibile la sua vita.
- Signorina Cristina per favore si concentri, prima finiamo prima arriverà la sua pausa, non voleva giocare?
- Rachele posso farti una domanda? Però devi promettermi una cosa
- Cosa?
- Che quando te la farò non correrai a chiamare mio padre
- Te lo prometto
- Voglio sapere qualcosa su mia madre…
La signorina Rachele si alzò e se ne andò dalla stanza. Cristina sapeva perfettamente dov’era diretta. Era la sua occasione. Le porte erano chiuse, ma la sua domanda conteneva una forza inspiegabilmente sconvolgente, ne era cosciente. La borsetta della signorina Rachele era rimasta lì, dimenticata su una sedia.
Aveva poco tempo.
La ribaltò sul tavolo, prese le chiavi e corse verso la porta principale.
Il rumore sordo della serratura la rese titubante, fu solo un secondo.
La luce la abbagliò.
Era fuori.

CAPITOLO 6
Il portone si aprì ancora e si richiuse sbattendo. Lanciarono qualcosa dentro la stanza, ma gli occhi dei due ragazzini erano troppo intorpiditi per capire di cosa si trattasse, sentirono solo uno zampettare veloce, come di un topo, che si fermò sbattendo in un angolo della stanza, poi non sentirono più niente.

- Cos'era tu l'hai visto?
- No, ma so chi è...è Matteo
- Matteo?
- Sì era già qui quando sono arrivato io, abbiamo parlato un po', non sapeva da quanto tempo era qui, come non lo so io, e tra un po' non lo saprai nemmeno tu
- ma dove l'hanno portato?
- Io non so niente, sei arrivato tu e dopo poco hanno preso lui...Matteo sei tu?

Silenzio.
Oscurità.
Silenzio.

- Non risponde, forse non è lui, forse non è nemmeno una persona

Ancora uno zampettare veloce verso un altro angolo della stanza, questa volta l'aria vicino ai due ragazzini si mosse sfiorandoli, uno dei due gridò, soffocando rapidamente la paura, chiudendola dentro la bocca con una mano.
Un tonfo e più niente, la stanza ritornò la stessa, silenzio e oscurità.

- Cos'è stato?
- Non lo so.
- Ho paura, cosa facciamo?
- Non possiamo fare niente, cosa vuoi che facciamo?

Marco d'istinto si toccò il braccio, lo sentiva umido, e quel tocco, gli lasciò la mano bagnata.
- C'è qualcosa che non va...non vedo...aiutami
- cos'hai ora?
- Non lo so, è che...

Si accesero le luci. I soliti secondi per riprendersi dalla momentanea cecità e Marco gridò.
La sua mano era sporca di sangue.

CAPITOLO 7
Cristina non sapeva dove andare, sapeva solo che doveva andare. La luce del sole le bruciava gli occhi e la pelle. Una sensazione nuova e strana.
Tutto era strano e diverso. L’aria era leggera, i rumori la confondevano, non sapeva di quali doveva aver paura, il suo cervello assaporava avidamente ogni cosa.
La ragazzina correva, si guardava intorno ma non si voltava mai indietro, il suo fiato ormai ad ogni passo si faceva più corto, le gambe più pesanti. La cosa sorprendente era che Cristina pensava di avercela fatta, di aver dato il suo primo passo nel mondo, non sapeva di essere ancora dentro la proprietà del padre, quel primo passo distava ettari e recinzioni invalicabili.
Non ce la faceva più, aveva corso troppo, non c’era nessuno in giro, voleva riposare un po’.
Riposare sotto un albero, lo aveva sognato, adesso l'albero era lì davvero.
Il contatto dell'erba con la pelle la fece piangere silenziosamente, non era triste.
Dopo alcuni minuti si accorse di qualcosa. Lontano.
Cominciò a camminare, questa volta lentamente, senza fretta.
C’era qualcosa nascosto tra gli alberi, si stava avvicinando ma era ancora troppo lontano.
Le pareti più bianche che avesse mai visto la sorpresero tra gli alberi. Era come un edificio, non sapeva bene cosa era, voleva avvicinarsi ancora un po’.
Un cubo maestoso, forse grande più della sua casa, innaturalmente bianco. Uccelli neri volavano attorno, alcuni appoggiandosi sul tetto, sembravano osservare la ragazzina, non c’erano finestre, c’erano porte.
Guardava con curiosità quella costruzione. Si stava avvicinando ad una delle porte.
Era aperta.

- Permesso?

Entrò

- Permesso?

Era tutto buio, non si vedeva niente.

- Permesso?

Un altro passo.
I suoi piedi incontrarono il vuoto e il suo corpo scivolò per diversi metri verso il basso, sbattendo violentamente contro l’oscurità.
Gridò di dolore.
Fuori gli uccelli cominciarono a gracchiare.
Poi più niente.

CAPITOLO 8
Si accesero le luci.

I due ragazzini erano vicini, uno di loro fissava la sua mano. Un terzo ragazzino, rannicchiato in un angolo dell'abitazione, completamente nudo, perdeva sangue da diverse ferite del suo corpo.

- Matteo?

Il ragazzino dell'angolo alzò la testa, il viso tumefatto, i suoi occhi cercavano qualcosa senza trovarlo. La testa ritornò a nascondersi tra le sue braccia.


- Il sangue è il suo, mi ha toccato, chi è, perché
- si chiama Matteo so solo questo, si chiama Matteo. Matteo.
- Cosa gli hanno fatto? Dobbiamo andarcene, aiutami ad aprire la porta
Luca guardava Matteo senza muoversi, non ascoltava, non sentiva.
-Luca?
- si chiama Matteo. Lui è Matteo. Tu chi sei?
- Io? Io...io sono Marco, credo.
- Matteo, Marco
- Luca per favore aiutami ad aprire la porta
-Lui è Matteo tu sei Marco

Il ragazzino dell'angolo cominciò a gridare. Urlava, riprendeva fiato e urlava più forte.
Luca rispose a Matteo urlando.
Marco corse verso la porta, inorridito, spaventato. La porta si aprì e la sua corsa terminò tra le braccia di un uomo senza volto, un uomo Nero, che lo sollevò da terra e lo scaraventò contro una parete.
L'uomo continuò a camminare.
Urla strazianti. Un pianto.
L'uomo Nero prese Luca per un braccio, il ragazzino divincolandosi, sbatteva ogni parte del corpo violentemente al suolo, così attraversarono la stanza. Uscirono.
La porta si chiuse.

Si spensero le luci.

CAPITOLO 9
La casa era in subbuglio, domestiche isteriche, camerieri preoccupati, tutti si muovevano freneticamente in ogni angolo della casa. Sotto i letti, dentro gli armadi, dietro le porte.

Cristina non c' era.

La signora Rachele, seduta su una sedia, muoveva nervosamente un fazzoletto che stringeva tra le mani, piangeva in silenzio, senza sbattere le palpebre. Nessuno badava a lei. Il ticchettio degli orologi scandiva il tempo di stanze piene di vita e di paura, solo una stanza era quieta. Il signor Annostri, in piedi di fronte alla finestra del suo studio, osservava l'immenso parco della sua reggia. Si fece il segno della croce e tornò a sedersi alla sua scrivania.
Alzò il telefono.

- È lì fuori da qualche parte. Basta perdere tempo. Trovatela. Avete capito? Trovatela. Non lo ripeterò!


- Papà?

Cercò di muoversi nell'oscurità, una fitta al braccio le bloccò il fiato nei polmoni. Cominciò a piangere, singhiozzando.

- Papà?...Signora Rachele? Ho paura.

Il parco della villa riluceva sotto gli ultimi spiragli di sole, il tramonto si stava avvicinando, una moltitudine di uomini e cani non smettevano di camminare in ogni direzione, urlando.

-SIGNORINA CRISTINA?!

-SIGNORINA CRISTINA!?

Cristina non c'era.

CAPITOLO 10
Aspettare non era facile, Marco aspettava.
Marco, così l’aveva chiamato quell’uomo dentro la macchina, da quel momento quasi non ricordava neppure più il suo vero nome, nessuno tanto l’aveva mai chiamato, per questo non importava poi molto.
L’altro ragazzino nella stanza era una presenza assente, l’unica cosa che Marco percepiva di lui era un continuo lamento quasi impercettibile.
La stanza cominciava a puzzare, lui respirava il meno possibile, il suo compagno doveva essersi defecato addosso, anche se addosso non aveva niente e quello che il suo corpo aveva perso doveva essere lì sul suolo della stanza. Non lo vedeva ma era come se lo vedesse attraverso il suo naso.
Si teneva stretto le braccia con le mani graffiandosele ripetutamente.
Aveva fame. Doveva andare in bagno. Aveva sete. Tutto cominciava a girare un po’, anche se tutto era nero.
L’attesa lo consumava, cosa avrebbe dato per non aspettare nulla. Sapeva che l’Uomo Nero sarebbe tornato per lui, quel mugolio continuo nella stanza lo tormentava, non poteva pensare ad altro che a quello.
Il portone si aprì. Marco striscio all’indietro fino a sbattere contro la parete più lontana, continuava a tenersi stretto, troppo. Le unghie conficcate dentro la sua carne.

- No no no no no no

Un sibilo.
Un corpo attraversò il portone che si richiuse.

- C’è qualcuno?

L’Uomo Nero non parlava.

- C’è qualcuno? Qualcuno mi sa dire dove siamo?

Ne era arrivato un altro. Riprese a respirare lentamente.

- Ci sono io
- Chi sei?
- Marco e tu chi sei?
- Giovanni. Mi chiamo Giovanni.

CAPITOLO 11
Cristina stava dormendo. Sembrava. Gli occhi erano chiusi come i pugni delle sue mani.


-Papà perdonami

Ripeteva ritmicamente, scandendo il tempo, senza spostarsi, immobile.
Aspettava un rumore, una voce.
Le ore passavano in silenzio, immobili come il suo corpo.
Un grido lontano. Poi un altro, più vicino. Un altro. Una luce dall’alto.

-PAPÀ

Gridò
Un altro grido, vicino a lei, spense il suo.
Nell’aria un respiro affannoso. Cristina tratteneva il suo. Non era più sola.
Qualcuno stava gemendo vicino a lei, mugolando qualcosa, un rumore continuo, parole che non riusciva a distinguere.
Si guardava intorno anche se intorno non vedeva niente. Pensava se parlare o meno.
Il rumore di un movimento.
Il respiro adesso le sfiorava la pelle, il lamento era vicino alle sue orecchie, un fiume di parole senza diga che con fatica cominciò a riconoscere.
Era la voce di un bambino.
Ascoltava il suo pianto. La voce prendeva forza.

- Egli disse loro quando pregate dite Padre Nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome venga il tuo regno sia fatta la tua volontà come in cielo e così in terra dacci oggi il nostro pane quotidiano rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non ci indurre in tentazioni ma liberaci dal male amen egli disse loro quando pregate dite Padre Nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome…

CAPITOLO 12
- Dove siamo?
- Non lo so
- Cosa dobbiamo fare qui?
- Non lo so
- Chi sta piangendo?
- Matteo
- Matteo?
- Sì, so solo questo, lui era qui prima di me e si chiama Matteo
- Perché piange?
- Non lo so…è buio, ma credo gli abbiano fatto del male
- Chi?
- Non lo so…l’uomo Nero
- L’uomo Nero?
- Non lo so, so solo che lui era qui prima di me e che si chiama Matteo, poi ce n’era anche un altro, Luca e lui lo ha portato via, il prossimo sono io, poi toccherà a te
- Non capisco cosa dici, qui mi sembrate tutti matti, dove cavolo sono finito? Cos’è mi stai prendendo in giro? L’uomo Nero? E tu saresti Marco, quello là che piange è Matteo e prima c’era anche Luca, giusto? E io guarda caso mi chiamo Giovanni! Cos’è uno scherzo?

Marco non lo ascoltava più, non aveva importanza, ascoltava i rumori della stanza, sempre in attesa.
Giovanni continuava a parlare, senza muoversi nell’oscurità, sperava che qualcuno accendesse le luci per vedere con i suoi occhi che era tutto uno scherzo.
Si aprì una porta laterale, qualcuno lanciò qualcosa, per tre volte.
Una cosa lo colpì sui piedi, si abbassò per toccare e cercare di capire cos’era. Qualcosa di freddo con qualcosa di caldo e appiccicoso dentro, non sapeva cos’era ma Marco stava rumoreggiando vicino a lui.

- Cosa fai?

Non lo sentì, stava mangiando avidamente dalla sua ciotola, era tanto che non mangiava, non sapeva più quanto tempo fosse passato da quella prima scodella.

- Ma che fai stai davvero mangiando questo schifo?

Si aprì il portone.
Giovanni vide un uomo grande e grosso nella penombra, che entrò nella stanza ma la oscurità lo nascondeva mostrando solo una sagoma nera.

- No no no no no, ti prego no, no no no no, per favore no no no No No no no NO, prendi lui, ti prego, NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO

Quei no seguirono per alcuni secondi senza interruzioni, Giovanni vide solo qualcosa muoversi vicino alla sagoma nera, fino al portone aperto.
Poi il portone si richiuse e tornò il silenzio e l’oscurità.

CAPITOLO 13
Cristina si stava chiedendo se il mondo fosse veramente quello. Paura. Orrore. Oscurità.
Non sapeva di non essere ancora uscita di casa, di non aver mai varcato i confini di quel mondo che voleva vedere. Suo padre aveva ragione, in quel nero che la circondava poteva vedere solo questo, suo padre non si sbagliava quando le diceva che non poteva uscire di casa, cosa avrebbe dato per poter tornare indietro, per poter dire al padre che non lo avrebbe fatto più, ma non poteva, gli aveva disubbidito e ora probabilmente sarebbe morta, lì sotto terra, proprio dove aveva letto che si mettevano i morti, non l’avrebbero trovata mai più e si sarebbero dimenticati di lei.
La voce vicino a lei continuava ininterrottamente la sua cantilena, come un disco rotto che per lei era diventata semplicemente un rumore di sottofondo che accompagnava i suoi pensieri.
Un rumore dall’alto. Una bagliore lontano. C’era qualcuno lassù. Avrebbe potuto dire qualcosa, avrebbe potuto gridare, ma quella presenza parlante vicino a lei, le aveva tolto qualsiasi speranza, chiunque in quel mondo lo avesse ridotto così, avrebbe potuto fare lo stesso a lei. Aveva paura. Si stringeva nel suo angolo sperando che nessuno potesse vederla, ma era così tanta la distanza che la separava da quella macchia di luce, che nessuno si sarebbe accorto di lei.
Un rumore sordo la fece sussultare, soffocò un grido in gola, respingendolo indietro con la mano.
Altri rumori vicino a lei, il ragazzino si stava muovendo, senza smettere di pregare, la sua voce era cambiata…stava piangendo.
L’aria cominciò a muoversi, e il circolo bianco compariva e spariva, ancora e ancora.
Lo stavano trascinando fuori. Un fragore e il bianco tornò nero.
Non si erano accorti di lei.
Lui avrebbe potuto parlare.
Cristina si strinse forte, dimenticandosi del dolore al braccio, dimenticandosi della paura e del buio, chiuse gli occhi e pensò a sua madre.

Maddalena.

CAPITOLO 14
- Non l’avete ancora trovata? Mi state prendendo in giro? Non è possibile! Sono già passati quasi due giorni.
- Signore abbiamo cercato in tutti i campi, dietro ogni albero, lungo ogni fiume, non l’abbiamo trovata. Mi dispiace…
- Mi dispiace? Vorresti dire che mia figlia è scomparsa nel nulla. IL NULLA NON ESISTE! MI HAI CAPITO BENE?
- Ma Signore allora è uscita e se fosse uscita dalle recinzioni sarebbe molto difficile trovarla
- Mi stai stancando. Non è uscita dalle recinzioni, e anche se fosse ricordati che per me niente è difficile, io sono onnipotente, non dimenticarlo, io sono il suo Verbo
- Allora la trovi lei

Terminata la frase si morse la lingua così forte da ferirsi, ma ormai quelle parola gli erano uscite dalla bocca inconsciamente, e non sarebbero tornate indietro, in nessun modo.

- MISCREDENTE
- No mi perdoni Signore non volevo dire quello che ho detto, mi perdoni davvero, sono stati due giorni molto duri sono più di 48 ore che non dormiamo e
- MISCREDENTE
- NO davvero le chiedo scusa, vado subito a riprendere le ricerche, mi scusi, mi scusi

Decise di avvicinarsi alla porta camminando indietro, guardando fissamente il signor Annostri

- In verità caro ragazzo ti dico… c’è una via che all'uomo sembra diritta, ma finisce con il condurre alla morte… e tu lo sai

Toccò un bottone della sua scrivania, la serratura scattò, le mani del ragazzo cercavano nervosamente di aprire una porta ormai chiusa.

CAPITOLO 15

Marco continuò a divincolarsi tra le mani dell’uomo Nero fino a rimanere senza forze. Fino a quando quelle stesse mani lo lasciarono inerme sul suolo di una stanza piena di luce, il contrasto tra buio e luce fu troppo forte per i suoi occhi. L’uomo Nero rimase vicino a lui per alcuni secondi, quasi a controllare che Marco non si fosse fatto male, nel tentativo di scappare dalla sua presa. Marco lo stava fissando, ancora una volta senza vedere il suo volto, ancora una volta una maschera nera nella sua testa. Le pupille si stavano abituando alla luce, il volto stava lentamente prendendo una forma. L’uomo Nero si girò e uscì dalla stanza.
Il ragazzino rimase solo.

- Marco alzati
Una voce. Nessuno.

- Marco ALZATI
Marco si alzò a fatica, su gambe traballanti, non per la debolezza, era la paura.

- Marco inginocchiati
Non aveva capito.

- INGINOCCHIATI
Si inginocchiò.

- Tu sai cos’è il dolore? La sofferenza? La povertà? La fame? L’umiliazione?
Silenzio.

- Per capire chi sei, dovrai viverlo, è il tuo destino…
Lui, però, non capiva nulla.

Si aprirono quattro porte, una su ogni parete, uscirono quattro uomini vestiti di bianco, pieni di luce, a Marco sembrarono angeli, ma appena lo afferrarono, sentì freddo lungo tutto il corpo, un freddo insopportabile, il freddo della morte.

- Sii forte e coraggioso; non ti spaventare e non ti sgomentare, perché il SIGNORE, il tuo Dio, sarà con te

Marco cominciò a piangere…in silenzio.


CAPITOLO 16
Giovanni non smetteva di muoversi, non gli importava se la stanza fosse completamente buia, lui non aveva paura, forse gli altri bambocci che erano li con lui, ma lui no. Se era entrato da una porta, doveva trovare quella stramaledetta porta, non appena si fosse aperta avrebbe approfittato di quell’oscurità per scaraventarsi fuori e correre il più velocemente possibile, lontano da quel gruppo di matti che lo aveva sequestrato. Perché poi sequestrare uno zingaro come lui non l’aveva capito. Comunque la sua Famiglia lo avrebbe trovato era solo una questione di tempo, questi delinquentelli da manicomio non sapevano con chi si erano messi.
La porta si aprì, ma lui era troppo lontano, questa volta invece di perdere tempo con piagnistei inutili si concentrò sulla posizione della luce, la prossima volta non si sarebbe fatto trovare impreparato.
Per l’ennesima volta entrò il fantomatico uomo Nero e scaraventò dentro la stanza un sacco di patate che molto probabilmente ero un altro di quei marmocchi di cui gli aveva blaterato quel piagnone prima che lo portassero via. Tanto per cambiare il bambinetto in questione stava piangendo, il tutto accompagnato da lamenti e farfugli. La porta si richiuse.
Dunque secondo quel poco che aveva visto, le cose funzionavano così: ogni volta che riportavano nella stanza un bambino malconcio, ne prendevano uno immacolato molto probabilmente per torturarlo, tutto doveva avere un fine nascosto che lui ancora non comprendeva, ma non era il momento di farsi domande inutili. Quindi secondo i suoi calcoli il prossimo sarebbe stato lui e sarebbe stato pronto.
Nella sua testa stava seguendo una luce immaginaria che aveva registrato nella sua mente, dopo alcuni tentativi finalmente le sue mani toccarono quella che doveva essere una porta, ne seguì la forma con le dita e quadro la visualizzò perfettamente nella sua testa, si accovacciò a terra al margine di quella che sarebbe stata la sua via di fuga.
Nel frattempo avrebbe dovuto sopportare la puzza di un cagasotto, il farfugliare di un isterico e Dio sa se ce n’erano altri nella stanza di rompiscatole come quelli.
- Ehi tu ma te ne vuoi stare un po’ zitto! Cos’è prima di venire qui eri un chierichetto o che cosa, comunque stai tranquillo il Padre Nostro lo so pure io.
Luca smise la sua cantilena, era come se la voce di Giovanni lo avesse svegliato da un incubo ma si toccò la faccia e anche se non vedeva nulla sapeva che le sue mani si erano sporcate di sangue e lacrime.


CAPITOLO 17
- Il Signore è con me. Ripeti Marco.
Marco stava piangendo. Era completamente nudo, con le mani legate.
- IL SIGNORE È CON ME! RIPETILO MARCO. Non devi aver paura del dolore, perché la sofferenza ti avvicinerà a Lui e Lui è il Tutto.
- Il signore è con me.
Marco ripeté quella frase trattenendo il fiato, la sua foce sembrava un sibilo proveniente da un mondo lontano, poi chiuse gli occhi. Li chiuse forte, molto forte, non solo per non vedere, ma per proteggersi da qualcosa di terribilmente doloroso e inevitabile.
Uno degli uomini vestiti di bianco dietro di lui alzò la cinghia che stringeva nella mano e la abbassò sulla schiena del bambino, gocce di sangue macchiarono la sua tunica immacolata.
Il ragazzino urlò e il suo pianto ora non era più silenzioso.
- Il Signore è con me. Ripeti Marco.
L'uomo vestito di bianco davanti a lui, continuava a parlargli con quella voce dolce e calma imperturbabile.
- Il Signore è con me. Ripeti Marco e questa volta mettici un po' più di convinzione, venera il Signore Tuo Dio. Lo amerai. Lo adorerai e lui sarà sempre con te. Il Signore è con me. Ripetilo Marco. Ripetilo perchè lui è in ogni tua lacrima, in ogni tua goccia di sangue. Ripetilo Marco. RIPETILO!
- IL SIGNORE È CON ME!
Marco senza sapere perchè lo gridò con passione, con dolore e disperazione, aveva giurato di non ripetere più quelle stupide parole nello stesso momento in cui la frusta aveva toccato il suo corpo dilaniandolo, tanto lo avrebbero torturato comunque, quindi perchè essere accondiscendente con loro? A cambio di cosa? Di una frustata? Non aveva senso, eppure l'uomo vestito di bianco di fronte a lui, la sua voce, le sue parole era come se lo avessero stregato.
Il secondo uomo vestito di bianco dietro di lui, alzò il braccio e una seconda frustata lacerò la pelle della sua schiena.
- IL SIGNORE È CON ME.
Urlò più forte. Senza lasciare parlare l'uomo di fronte a lui.
Il dolore arrivò ancora una volta, ogni volta era come se si sentisse svenire, ma incredibilmente per qualche strana ragione si sentiva più forte.
- IL SIGNORE È CON ME.
Il sangue del ragazzino ormai aveva coperto tutto il suo corpo.
- IL SIGNORE È con ... Me
Marco svenne.


CAPITOLO 18
Giovanni rimase calmo e fermo nella stessa posizione per diverse ore, ma se pensavano che lui avrebbe ceduto addormentandosi o abbassando la guardia, si sbagliavano di grosso, gli altri forse, ma lui no. Lui no. Ripeteva continuamente quelle due parole, per ricordarsi chi era, lui gitano di strada aveva la pelle dura.
La porta si aprì.
Ecco erano venuti a prenderlo, evidentemente avevano già finito di torturare l’altro marmocchio, adesso toccava a lui. Una sagoma nera gli passò a fianco e lui silenzioso come gli avevano insegnato i suoi fratelli maggiori, si mosse felino e sgattaiolò fuori dalla porta. Tutto successe in un istante, esattamente quel secondo che tardarono le luci ad accendersi dopo l’apertura della porta.
L’uomo Nero si guardò intorno incredulo. Mancava l’ultimo ragazzino. Non poteva essere. Si avvicinò agli altri due che cominciarono a gridare e a strisciare sul pavimento per allontanarsi da lui. Li prese per il collo entrambi, stringendo come lui sapeva, fino al limite quelle ossa giovani. Li guardò bene in faccia, mentre il viso di Matteo e Luca stava diventando violaceo e gli occhi sempre più sporgenti, poi lasciò la presa e caddero violentemente al suolo. L’uomo Nero si voltò e quasi correndo uscì dalla stanza, sbattendo violentemente la porta.
Si spensero le luci.
Tornò il buio.

CAPITOLO 19



Era scesa la notte.
La piccola Cristina non era ancora stata trovata. Rachele era rimasta tutto il giorno nel salone senza muoversi, sarebbe potuta rientrare nella sua stanza, ma aveva paura, sapeva che tutta la colpa sarebbe caduta su di lei. Voleva bene a Cristina, l’aveva cresciuta lei, ma ancora di più amava la sua vita e sapeva che se fosse successo qualcosa a Cristina, sarebbero morte diverse persone, tra cui lei. Il signor Pantokrator non credeva nel perdono, c’erano altre dimensioni dopo la morte e se il pentimento era puro solo lì si sarebbe ricevuto il perdono, ma la terra non era posto per impartire un tale privilegio. Cose del genere, come il perdono, la misericordia, la pietà, la comprensione, la compassione stavano portando il genere umano ad una degenerazione dalla quale sarebbe stato difficile tornare indietro, dalla quale dopo la morte in nessuna misura si sarebbe potuto raggiungere un livello di pentimento così profondo da poter cancellare tale decadenza.
Il perdono terrenale così effimero e fugace stava distruggendo qualsiasi possibilità di ricevere il perdono eterno. Cosa rappresentavano dolore e sofferenza lì, in quel dove e in quel quando, rispetto alla tortura eterna dell’oblio delle nostre anime?
Lei stessa aveva sempre creduto e sostenuto con tutto il suo spirito gli insegnamenti del signor Pantokrator. Infondo cos’era lei prima di conoscere quell’uomo che l’ha raccolta dalla strada, che le ha dato una casa e un’istruzione, non era nulla, solo una ragazzina obbligata a prostituirsi dai suoi genitori.
Lo aveva deluso. Aveva sbagliato. Non voleva morire. Aveva sentito parlare molte volte del passo dei Maledetti, se avesse ricevuto la maledizione del suo Signore, sarebbe finita laggiù, lo sapeva.
“Cristina, mia piccola bambina… cos’hai fatto?”, pensò Rachele mentre la casa intorno rimase ostinatamente in silenzio.
Pantokrator entrò nel salone e lei prontamente le si prostrò in ginocchio.
- Alzati Rachele.
Lei si alzò.
- Non piangere Rachele.
Lei si asciugò le lacrime.
- Signore, io …
- Non parlare Rachele.
Lei smise di parlare e rimase immobile di fronte a lui, senza guardarlo negli occhi.
- Non avere paura Rachele, Cristina non può essere andata lontano, nessuno può uscire dalle mie Terre senza il mio permesso. La troveranno. Avrebbero già dovuto trovarla, questo è vero, ma l’inettitudine delle persone che mi circondano sembra essere senza fine. Prega dunque perché l’uomo a cui è stato donato l’ingegno, lo possa usare liberandosi da tutte le idee peccaminose che vivono nella sua testa annebbiandone i sensi. Offri il tuo dolore e le tue preghiere saranno ascoltate. Pantokrator le toccò la testa con la mano e lei rabbrividì leggermente.
- Ora vai. VAI Rachele! Non dimenticare il volto di Dio.
Dio non aveva volto, perché Dio era tutto, Pantokrator glielo aveva insegnato, per questo non dimenticare il suo volto significava non dimenticare la sua potenza e la sua infinitezza, perché Tutto dipende da Lui e dalla sua Volontà, su quella Terra loro erano solo di passaggio, per comprendere, per redimersi, per prepararsi ad attraversare quel varco che li avrebbe resi un tutto con l’infinito e l’unica cosa che avrebbero potuto donare all’Altissimo da lì era il sentimento più puro e forte che possedevano.
L’amore? No l’amore porta solo alla perdizione, annebbia la ragione, ci porta a compiere gesti quasi sempre insensati e controproducenti, ma soprattutto ci fa dimenticare il volto di Dio che viene stupidamente sostituito dalle persone che pensiamo di amare.
L’unica passione che possiamo offrire come uomini, senza dimenticare il suo volto, bensì rafforzando il suo spirito dentro di noi, è il Dolore.
Rachele chiuse la porta della sua stanza, si tolse la maglietta e il reggiseno, aprì il primo cassetto del comò, ne estrasse un nerbo, si inginocchiò e cominciò a fustigarsi.
- Sia fatta la tua volontà!



CAPITOLO 20
Cristina esausta questa volta si addormentò veramente, persa in quell’oscurità e in quel silenzio, la svegliò il rumore della botola che si stava aprendo sopra di lei. In quel momento pensò che ormai per lei era arrivata la fine, sarebbe morta dimenticata in un buio infinito oppure chi aveva preso il bambino con cui aveva diviso quello spazio, avrebbe preso anche lei e l’avrebbero uccisa, perché quel bambino era così terrorizzato che sicuramente era già morto. Quei pensieri stranamente non la spaventarono, erano passate così tante ore, forse giorni, non sapeva più nulla, il dolore al braccio continuava a tormentarla, desiderava solo che finisse tutto, tornare indietro non le sembrava più possibile. La luce sopra di lei scomparve, un fruscio, un tonfo e un lamento. Possibile fosse il ragazzino di prima, possibile fosse ancora vivo? Cosa stava succedendo in quell’edificio? Chi erano quelle persone?

L’altra presenza cominciò a muoversi.

- Il Signore è con me, il Signore è con me. Marco non devi aver paura, il signore è con me. Lui è la mia forza!

Non sembrava la voce di prima, questa voce era forte, decisa, doveva essere un altro bambino, ma anche lui era un fanatico religioso? Marco la toccò e lei si ritrasse emettendo un gridolino involontario.

- Luca sei tu?

Cristina non sapeva cosa fare.

- Luca non avere paura.

La voce del ragazzino non era una voce cattiva e lei non sarebbe potuta scappare da quella stanza.

- Non sono Luca. Mi chiamo Cristina.

- Cristina?

- Sì e tu chi sei?

- Io sono Marco...credo. Ma tu cosa ci fai qui? Sei stata anche tu con gli uomini Bianchi?

- No, io mi sono persa. Stavo scappando di casa, sono entrata in questo edificio per riposarmi e sono caduta in un buco. Nessuno sa che sono qui e ho molta paura.

- Non devi aver paura. Io sono stato con gli uomini Bianchi, mi hanno fatto molto male ma alla fine ho capito che l’unica cosa che volevano insegnarmi è che non dovevo aver paura né di loro né di niente, l’unica cosa che possono farti gli altri e farti provare dolore, ma Dio è con noi

- Non capisco, scusa perché ti hanno fatto del male? Perché devi soffrire per capire che Dio è vicino a te. Quello che dici non ha senso.

Marco rimase in silenzio.

- Marco?

Il ragazzino non rispose.

- Marco ti sei offeso?

Un rumore sopra le loro teste, uno spiraglio di luce. Voci in lontananza. Un rumore vicino a loro, come di qualcuno che avesse saltato dall’alto e fatto schioccare le suole delle scarpe sul pavimento.

- Cazzo! C’è mancato poco!

- Giovanni?

- Marco?



CAPITOLO 21
Ragazzi non so cosa ci stia succedendo, ma vi dico in serio che lì fuori è un delirio assoluto.
- Giovanni come sei arrivato fino a qui, sei già stato con gli uomini Bianchi?
- Marco te sei fuori di testa! Chi cazzo sono sti uomini bianchi? No, no sai cosa ti dico, lascia stare tanto te non sai che parlare di uomini Bianchi, uomini Neri, mentre te parli, io sono riuscito a scappare bello mio.
- Non ci credo. Scappare è impossibile.
- In parte no e in parte questa volta hai ragione, almeno per il momento. Sono riuscito a scappare da dove ci tenevano rinchiusi, sì insomma da dove ci siamo conosciuti, se così si può dire. Ho corso in linea retta senza fermarmi per non so quanto tempo, ma di chilometri ti assicuro che ne ho macinati parecchi e sai fin dove sono arrivato.
- No e non mi interessa.
- Che??? Allora con te non ce neppure da perdere il fiato. Sei fuori di testa esattamente come loro.
Giovanni rimase in silenzio, con le braccia incrociate e il viso imbronciato.
Io, però, vorrei sapere fin dove sei arrivato.
Quella vocina dolce lo fece trasalire ma senza spaventarlo.
- Cavolo e te chi sei adesso?
- Io sono Cristina.
- Cristina mi immagino che tu sia nella nostra identica situazione, mi dispiace ma la verità è che sono arrivato fino al confine più estremo di questa proprietà e porca paletta ci sono delle recinzioni elettriche alte per lo meno 5 metri e ti assicuro che funzionano o tirato un sasso e le scintille lo hanno fatto volare come una nocciolina! Così ho fatto dietro-front, mi serve del tempo per riflettere e pensare al modo di uscire vivo da qui, ma mi stavano già cercando e così per nascondermi sono entrato qui dentro, dove ovviamente tanto per cambiare è tutto buio e devo essere caduto in una specie di buco, ma dolcemente, quindi significa che c’è uno scivolo.
- Hai detto “Questa proprietà”, cosa significa?
- Oh mamma mia non dirmi che sei un’altra tutta strana, tipo sto qui. Comunque Cristina adesso scusa ma dobbiamo concentrarci su come fare per disattivare l’elettricità di sto cavolo di manicomio a cielo aperto.
- Dio è con noi Giovanni, semplicemente devi mantenere la calma e accettare il tuo destino.
Marco parlò cercando di trasmettere la sua pace.
- Cristina lascia perdere sto fanatico e ascoltami bene
Nessuno ti ascolterà, perché devi stare zitto, ti ho detto che non si può scappare da qui!
Marco cercò di afferrare il braccio di Giovanni, ma trovò solo il suo maglione, il ragazzino si divincolò dalla presa rapidamente.
- Non ti azzardare a toccarmi razza di depravato, vedrai come scappo da te e da tutti gli altri, non me ne frega niente che siano uomini neri, bianchi o rossi! Cristina se vuoi venire con me dammi la mano. Bisogna provarci. Ho visto quella che mi sembrava una piccola centrale elettrica non troppo lontano da qui.
Cristina allungò la mano e Giovanni la incontrò subito, era calda e morbida, quel tocco lo fece sentire strano.
Marco aveva percepito quel movimento vicino a lui, ed era come se stesse vedendo quella stretta di mano nascosta dall’oscurità e non gli piaceva per niente.
- Andiamo Cristina
I ragazzi cominciarono a risalire lo scivolo da cui erano caduti.
- AIUTO! AIUTO! SONO QUI! STANNO SCAPPANDO! STANNO SCAPPANDO! AIUTO!


Le grida di Marco esplosero nelle orecchie di Giovanni e Cristina. Come dinamite.




CAPITOLO22
Giovanni afferrò la mano di Cristina e la trascinò letteralmente sullo scivolo, non c’era tempo da perdere. Marco stava ancora gridando, forse li aveva fottuti per bene ma forse no e lui non sarebbe rimasto fermo rimpiangendo possibilità perdute.
Cristina continuava a scivolare, rendendo più lenta del previsto la sua risalita e quello che era peggio le sue già scarse possibilità di fuga. Non sapeva neppure lui cosa gli era preso, nell’esatto momento che le loro mani si toccarono, sentì una specie di scossa elettrica nel cuore, non immaginava come altro definire quella sensazione che gli stava inviando un messaggio chiaro e forte, quella mano non l’avrebbe lasciata per nulla al mondo.

- Dai Cristina ci siamo quasi!

La ragazzina spingeva con tutta la sua forza, non conosceva Giovanni eppure si fidava di lui, il braccio le faceva ancora male, ma non voleva pesare ancora di più sul suo compagno di fuga, stringeva i denti e cercava di non lasciare la presa anche se per qualche strana ragione sapeva che lui non l’avrebbe lasciata cadere.

- Ecco un ultimo sforzo.

Finalmente Giovanni arrivò ad afferrare con l’estremità libera del suo corpo l’inizio dello scivolo dal quale erano caduti e con un’ultima spinta, prima issò fuori Cristina e poi con un salto atletico si ritrovò fuori da quella dannata trappola e si videro per la prima volta.

Giovanni e Cristina, uno di fronte all’altra, sorrisero senza conoscere bene il perché, l’espressione del ragazzino cambiò rapidamente in una smorfia di preoccupazione e Cristina si spaventò. Giovanni le teneva ancora la mano, la strattonò vicino a lui e le sussurrò all’orecchio.

- Dietro di me c’è una porta. Devi fare assolutamente quello che ti dico io, senza voltarti indietro, senza farmi domande, devi correre capito, adesso ti lascio la mano e corri più veloce che puoi. Io ti ritroverò! Vai!

Giovanni le lasciò la mano e Cristina cominciò a correre, senza voltarsi indietro, senza fargli domande, non avrebbe tradito la fiducia del suo salvatore, trovò la porta, la aprì e continuò la sua marcia senza conoscere la sua destinazione, senza domandarselo, perché lui l’avrebbe trovata.

Giovanni la vide uscire, sorrise ancora, poi vide gli uomini Bianchi di Marco e gli si scaraventò contro con le sue ultime forze, gridando tutta la sua rabbia. Un calciò lo colpì al petto facendolo rimbalzare all’indietro, un dolore straziante gli bruciò dentro e un rigolo di sangue uscì dalla bocca.

Mentre era disteso per terra un altro calcio lo colpì alla schiena e questa volta le luci si spensero, ma solo per lui. Mentre stava perdendo i sensi martoriato dal dolore, riusciva a pensare solo a una cosa.

“Ti ritroverò Cristina. Io ti ritroverò!”


CAPITOLO 23
Pantokrator era seduto nel suo ufficio, stava guardando nervosamente fuori dalla finestra, in attesa di qualche notizia, quando Rachele bussò alla porta.


- Avanti

- Mi scusi signore se la disturbo, ma non riuscivo più a sopportare questo silenzio, nessuna novità?

- No Rachele.

- Ormai sta calando la notte. Povera Cristina, sarà spaventata a morte.

Rachele si toccò la gola, come per slegare quel nodo che quasi non la lasciava deglutire.

- Non preoccuparti Rachele, non le succederà niente di male, un po’ di paura non ha mai ucciso nessuno, credo che dopotutto a lei potrebbe servirle come insegnamento.

Il telefono squillò, Pantokrator sollevò il ricevitore.

- Sì?

Rachele cercò di ascoltare le parole dell’altro interlocutore ma non arrivarono alle sue orecchie.

- Ho capito. Portatelo qui! Anzi no. Portateli qui tutti e quattro.



CAPITOLO 24

Da quando era uscita da casa, quella che fino a quel momento rappresentava tutto il suo mondo, il buio aveva prevalso su quella luce iniziale che gli mostrava la bellezza di quella natura che aveva visto nella sua testa, tra le pagine dei libri, nelle parole di Rachele, ciò che per lei rappresentava la libertà di cui era stata privata, fin dalla nascita, senza sapere perché.

Quei primi passi di felicità l’hanno guidata dritta dentro un incubo, dove l’oscurità copriva ogni cosa, ogni illusione con il passare delle ore si spegnava dentro il suo cuore e il terrore vinceva su qualsiasi altra emozione. Poi arrivò lui, Giovanni, la sua voce, il suo calore, il suo sguardo, esplosero dentro di lei scacciando più lontana quella paura che la stava vincendo e riprese a sentire, a sperare.

Ora era senza forze, aveva raggiunto la recinzione di cui le aveva parlato il ragazzino, si era accasciata sotto un albero, appoggiata al tronco, ancora una volta al buio, la notte circondava ogni cosa, ma quell’oscurità era diversa, la luna sopra di lei illuminava i suoi occhi e il suo cuore palpitava forte, non solo per l’enorme sforzo che aveva compiuto per correre fino al confine, era la magia di quel tenue chiarore, l’odore del tronco, il profumo dell’erba, l’aria fresca che le accarezzava il viso e la sicurezza che Giovanni stava correndo verso di lei. Chiuse gli occhi. Si addormentò mentre le sue labbra senza saperlo stavano sorridendo.

Giovanni non stava correndo.

Gli uomini Bianchi lo stavano trascinando da Pantokrator, Matteo, Marco e Luca camminavano davanti al gruppo, entrarono in una stanza, un uomo li stava aspettando, Giovanni ancora incosciente cominciò a biascicare più volte la stessa parola.

Cristina.


CAPITOLO 25


- Eccoli i miei ragazzi! Matteo, Luca, Marco e Giovanni! Ben arrivati nella vostra casa, in quella che era fin da prima della vostra nascita, la vostra famiglia.
Matteo non osava guardare l’uomo che stava parlando, la sua voce gli metteva i brividi, più di qualsiasi uomo Bianco o uomo Nero, nonostante tutto quello che aveva sofferto fino a quel momento. Luca lo ascoltava incuriosito, mentre Marco lo guardava con ammirazione, come se lo conoscesse e solo stesse aspettando di conoscerlo. Giovanni si era ripreso completamente e stava cercando di alzarsi in piedi. Tutti e quattro erano nudi, i segni delle violenze commesse sui loro giovani corpi erano visibili, da alcune ferite usciva ancora sangue fresco, in altre era secco e gli ematomi coloravano tristemente buona parte della loro pelle.
- Mi hanno riferito che quasi tutto è andato per il verso giusto. Matteo, Luca, Marco avvicinatevi.
I tre bambini ancora nudi si stavano comprendo istintivamente i loro genitali con le mani, Matteo e Luca si guardarono tra loro, mentre Marco cominciò ad avvicinarsi a Pantokrator. L’uomo toccò la testa del ragazzino, che immediatamente abbassò il suo sguardo.
- Bravo Marco, venite ragazzi, non abbiate paura, io sono il Padre di tutti voi e sono il Figlio prediletto del nostro Dio. Non abbiate paura del Padre, perché anche lui è figlio come voi e Dio mi parla come io sto parlando a voi. VENITE DUNQUE!
Quell’ultimo grido scosse Luca e Matteo come elettricità e si mossero tremanti verso quell’uomo che non conoscevano e lui toccò i loro volti chini, la mano sulle loro teste era grande e calda, in quel momento i tremiti abbandonarono i loro corpi e senza nessuna spiegazione cominciarono a sentirsi tranquilli, il dolore delle ferite se n’era andato, percepivano solo pace.
- Non temete la mia mano, perché è forte e giusta.
Pantokrator si voltò verso gli uomini che avevano accompagnato i ragazzi.
- Lavateli, vestiteli e nutriteli, poi portateli nelle loro stanze. Hanno bisogno di riposare. Ci aspetta un lungo cammino davanti a noi.
Gli uomini dovettero trascinare i tre ragazzi fuori dalla stanza, ora sembravano non voler staccarsi più da quell’uomo senza identità.
Giovanni aveva osservato tutta la scena, fermo in un angolo della stanza, ancora debole, dovette appoggiarsi alla parete per mantenersi in equilibrio.
- Giovanni, ho riposto molta fiducia su di te e devo dire la verità fino a questo momento sono abbastanza deluso del tuo comportamento, dove pensavi di scappare? Non puoi scappare in nessun posto perché Dio è ovunque!
- E allora? Dio era ovunque anche prima che tu mi rapissi, razza di pervertito, non so cosa hai in mente ma
- ZITTO! Tu farai tutto quello che ti dico io! Se ho deciso di non mandarti ancora sul passo dei Maledetti è perché come stavo dicendo, ho riposto molta fiducia su di te e io non sbaglio MAI! Dunque Giovanni ora dimmi dov’è mia figlia?
- Tua Figlia? E che cavolo ne so io? Non sei tu che parli con Dio? Chiedilo a lui, sai una cosa? Lui è ovunque!
Pantokrator si avvicinò, accarezzò i capelli del ragazzo che si ritrasse, allora li afferrò bruscamente, tirandoli con forza, Giovanni provò un dolore straziante, i suoi occhi si riempirono di lacrime, ma con la bocca sorrise a Pantokrator sfidandolo. L’uomo lo lasciò.
- Bene Giovanni. Molto bene, non importa. Cristina probabilmente morirà di fame, dubito che la fuori, sola, sappia prendersi cura di se stessa.
- Cristina?
Il bambino non credeva alle sue orecchie, la fanciulla angelica che aveva conosciuto era figlia di quel demonio! Un demonio che però aveva ragione.
- Io posso trovarla, però a cambio voglio che mi prometta una cosa.
- Ah Giovanni sei l’unico dei tuoi fratelli che sembra non avere ancora capito chi sono io e la grande possibilità che vi ha offerto la vita. Tu non puoi minacciarmi né pretendere nulla da me, io decido cosa è giusto o sbagliato. Giusto è che tu viva con la tua nuova famiglia. Non posso lasciarti andare.
- Bene. Non sono stupido questo l’ho capito
“Almeno per il momento”, pensò il fanciullo.
- Non volevo chiederle la mia libertà. Volevo solo essere sicuro che Cristina facesse parte di questa mia nuova famiglia.
“solo così potrò proteggerla, sempre per ora, sarei cretino se pensassi il contrario”.
- Ti sei innamorato di lei? Interessante.
- Io posso trovarla!
- Giovanni vedi che siamo già d’accordo, tu non mi chiedi nulla che io non voglia darti, questo è giusto e buono. Ma non credere che non sappia che le tue intenzioni non sono pure. Io sono il Padre sulla Terra e qui non mi si può nascondere nulla. Il tuo cuore è giovane e niente è semplice, un cuore giovane deve essere forgiato e il tempo mi aiuterà, un passo verso la Famiglia era quello che volevo e tu lo stai dando. Ciò mi basta … per il momento.



Continua...



























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