Perpetua

La stanza era vuota.

Qualcuno mi aveva chiamato, eppure nessuno mi aspettava.
La mia voce risuonò, sorda, nell’aria.
Ancora nessuna risposta.
Mi allontanai dalla stanza, la casa era grande, l’uscita ancora lontana.
Foto di cerimonie tappezzavano le pareti.
L’aria odorava di vecchio, e cominciava a pesare ad ogni stretta dei miei polmoni.
Il corridoio era lungo ma l’uscita più vicina.
Le mie gambe esitarono per un rumore alle mie spalle, volevo uscire, eppure questa mia voglia stava lottando con il bisogno di tornare indietro
Solo pochi minuti prima camminavo verso il mio furgone, poi le mie orecchie, incredule, sentirono quella musica.
Una musica che conoscevo bene.
Era la stessa musica che io, e i miei lontani compagni di giochi, scherzando, raccontavamo di sentire ogni notte.
Una musica di carillon, che contro la nostra volontà ci attirava verso la chiesa.
Ogni notte dovevamo resisterle, perché quella chiesa nascondeva segreti che nessuno voleva conoscere.
Dalle nostre case, umidi di sudore, sfidavamo quella musica, mentre dalle finestre, i nostri occhi erano fissi sulle vetrate, illuminate, della chiesa, dove un’ombra grande e robusta, camminava avanti e indietro, in attesa.
La perpetua del nostro prete.
Figura chiave e quasi mitologica del nostro racconto, che usavamo, per spaventare le bambine, illudendoci, a volte, di spaventare anche, quelli che per noi, all’epoca, erano i “grandi”.
Ora, la musichetta che avevamo inventato e fischiettato ad ogni racconto, era risuonata nell’aria, e come nella mia fantasia o forse solo grazie ad essa, mi aveva attirato verso di sé, fino a questa stanza, dove una voce senza volto aveva pronunciato il mio nome.
Conoscevo quella voce, o mi ero solo illuso di conoscerla, o semplicemente di sentirla?
Ancora, però, tra quelle mura mi stava chiamando…Emiliano.
Ora la sentivo distintamente, era la sua voce.
Non potevo far altro che tornare sui miei passi.
I miei amici di allora non avrebbero creduto a tutto questo…o forse sì.
Poco importava, perché quei bambini non esistevano più e degli adulti che erano diventati, io non sapevo più nulla, né sapeva più nulla di loro, il paese dove tutti noi eravamo nati.
La stanza era ancora vuota, l’aria che prima odorava di vecchio, ora sapeva di rancido, ad ogni respiro sentivo la gola bruciare.
I miei occhi la stavano cercando.
La stanza era ancora vuota.
Ancora la sua voce, ancora il mio nome…Emiliano.
Doveva essere dietro quella porta.
Quasi non respiravo più, ma dovevo aprire quella porta.
La maniglia era incomprensibilmente fredda.
Dietro la porta una rampa di scale.
Ad ogni scalino, un odore nauseabondo soffocava ogni mio pensiero.
Davanti a me una sagoma grande e robusta camminava avanti e indietro, in attesa.
L’aria era freddissima, e non so per quale suggestione ma era come se i miei amici, ancora bambini, fossero lì…o erano lì?
Poi lei si fermò e si avvicinò a me, fino a quando le nostre labbra poterono quasi toccarsi.
Fino a quando presi coscienza di ciò che, in realtà, sapevo già.
Non era mai stata un racconto, non lo era mai stato.
Gli anni lo avevano fatto diventare uno stupido racconto, la mia maturazione aveva reso la realtà una fiaba per bambini ed ora come un bambino rivivevo quegli attimi.
La musica suonava, dolce, tra di noi, e quelle note che da bambino avevo sempre saputo affrontare, oggi, da adulto erano riuscite ad ingannarmi.
Il freddo stava intorpidendo ogni mio muscolo, respirare stava diventando troppo doloroso.
Lei mi prese tra le sue braccia e cominciò a raccontarmi di segreti lontani.
Segreti che nessuno avrebbe dovuto o voluto sapere.
Me ne stavo andando, eppure ero ancora lì, tra le sue braccia, dentro quella che era stata la sua casa.
La casa della Perpetua.

Perpetua, racconto di Eva Gianella edito da Splattercontainer
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